Diversi lavoratori stanno affrontando un periodo complesso e nel settore dell’automotive la pensione sembra essere un miraggio.
Negli ultimi la situazione legata al mondo del lavoro si è fatta via via sempre più complessa e per nulla facile da poter gestire. Non sono rari i casi nei quali si è parlato di cassa integrazione, con tanti lavoratori che si sono trovati da un giorno con l’altro a casa a dover fare i conti con le spese sempre più elevate.

Lo sanno benissimo coloro che lavorano nel settore dell’automotive, con le nuove normative europee che hanno sicuramente messo in crisi le aziende. Il Vecchio Continente è quello che da anni non sta trovando il bandolo della matassa per riprendersi, con la situazione che non sembra di certo prossima a migliorare.
Di recente sono stati attuati una serie di studi legati alla tanto attesa e sognata pensione, quella che per molti lavoratori sembra diventare una chimera difficile da raggiungere. A quanto pare per coloro che lavorano nel settore dell’automotive la situazione si è fatta davvero molto complessa e le prospettive sono ben lungi dall’essere positive.
Operai automotive e pensione: perché si rischia di slittare sempre più?
Una delle Leggi più criticate è stata senza dubbio quella Fornero del 2012. Con questa Legge infatti si poteva andare in pensione a 64 anni anche solo con 20 anni di contributi e una pensione almeno pari a 2,8 l’assegno sociale. Oggi questa Legge si è inasprita, con la soglia che è di 3 volte l’assegno sociale, e nel 2030 diventerà di 3,2.

Inoltre dal 2024 vi è un nuovo vincolo, con la pensione anticipata contributiva che non può superare di cinque volte il trattamento Inps, che risulta di 3017 euro lordi mensili. Dal 2025, in modo tale da ampliare un maggior numero di lavoratori, si è estesa la soglia con la somma della reddita maturata dai fondi pensione, ma i contributi saranno 25 e non più 20.
La situazione legata alle pensioni continua a dividere anche la stessa maggioranza, ma di sicuro la situazione legata all’automotive si complica. I continui licenziamenti di questo periodo rischiano di far allungare sempre di più gli anni di lavoro, con il raggiungimento delle quote minime che fatica a essere raggiunta. La soluzione sembra essere quella di un’uscita a 64 anni con 25 anni di contributi, questo dice il sottosegretario del Ministero del lavoro Claudio Durigon, ma per ora chi deve fare i conti col pallottoliere sono i lavoratori.